“Il discorso del re” illumina con garbo e maestria una pagina poco conosciuta della storia britannica: la lotta del monarca contro i difetti della pronuncia. Giorgio VI, re d’Inghilterra durante la seconda guerra mondiale e padre della regina Elisabetta, smette (quasi) di balbettare grazie ai metodi alternativi di un logopedista australiano.
Un soggetto che sembrerebbe più adatto per una fiction della BBC che a una pellicola da Oscar. Delle splendide fiction inglesi “Il discorso del re” ha la fotografia curatissima, la recitazione misurata e impeccabile, le atmosfere raccolte, il gusto della tradizione. Ma agli Academy Awards ha sbancato: miglior film, miglior regista, miglior attore, migliore sceneggiatura originale. Meritati? Chissà. Il film di Tom Hooper non sembra avere lo spessore per durare nel tempo e l’adorabile, e incensatissimo, Colin Firth appare costipato per tutta la durata della proiezione. Quanto alla migliore sceneggiatura, quest’anno avrebbe senz’altro meritato di più “Inception”.
Gli unici Oscar che “Il discorso del re” avrebbe dovuto vincere, non li ha vinti. Quello per i migliori costumi, ad esempio. Perché questa statuetta deve sempre andare a film fantasy, di fantascienza o baracconi in costume? Gli splendidi cappotti sfoggiati da Colin Firth meritavano eccome un riconoscimento. L’eleganza inglese va premiata. Come va premiata la migliore attrice non protagonista, un’ottima Helena Bonham Carter, finalmente libera da ruoli dark, che interpreta con grazia il ruolo della moglie del re.